Presentazione del libro di Enea Angelucci, Cumu frutti ‘ccordi. Componimenti in dialetto cingolano
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Sabato 18 settembre 2010
alle ore 17.00
nella Sala “T.Roccabella” della Biblioteca comunale Ascariana di Cingoli
presentazione del libro:
di Enea Angelucci
CUMU FRUTTI ‘CCORDI. Componimenti in dialetto cingolano
a cura di Luca Pernici e Gianfilippo Centanni
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PREFAZION
PREFAZIONI
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Luca Pernici, Per una botanica di un’anima nostra
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Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
Nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.
Son dunque…che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
(Aldo Palazzeschi, Chi sono? da: Poesie)
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Vari, freschi, di rugiada ancora bagnati, aulenti, saporosi e nutrienti questi frutti che Enea ci porge.
Raccolti o… forse naturalmente caduti, chissà?*… dall’albero, sazio di giorni e di sole e di tenera notte, torto nel tronco dai venti che a lungo da sempre fluttuano vaghi giù pel declivio, da luce fatto incerto, che al mattino, verso oriente, tingono d’improvviso i fragili e d’un diafano lilla fiordalisi… declivio nella cui terra le radici, quest’arbusto fecondo, interna profonde.
È terra dell’anima quella da cui trae linfa quest’albero fruttuoso.
Terra fatta di uomini e di donne, di nomi e di parole, dette e dimenticate, pronunciate sottovoce o udite da molti, e di cose, perdute e ritrovate, toccate e usate e guardate, e di gesti, e di profumi, acri e forti, dolci e fragranti, e di fame e di sete, di stanchezza, dolore, pianto, gioia, noia, nostalgia, malinconia… e di paure e di speranza, di melodie in lontananza, e di attese, e di ingenuità e freschezza, e dell’acqua che scorre in piccoli rivi pietrosi tra folta ombrosa verdura, e di cieli notturni e d’albe serene, fresche e silenti, e del canto del merlo nei mattini nevosi d’inverno e di quello monotono delle cicale nell’antico silenzio dei caldi pomeriggi d’estate …
sì … fatta di vita.
Della vita fluita, come sabbia tra le dita di chi cerca d’afferrarla, tra Monte Niru e u Spineto, da ‘a Pineta, a sotto Sansoprà, docch’è ‘a sorgente, fin a mellà u Furu, da Ripa Roscia a passata Porta Pia e su, su pe’ u Corso fin a su Piazza, e più o’ ancò, oltre la scomparsa Sansalvatò e giò gioppe ‘a Polisena, e oltre… ancò più là… ma presente ancora, sommersa eppur vibrante, priva di voce ma udibile, lucente, seppur figlia ormai dell’ombra, sugli architravi delle finestre dell’antiche dimore e, un po’ più in alto, nel correr delle grondaie, e tra i rami odorosi dei tigli, e sotto… sul margine del selciato, volentieri là ove vi affiora spontanea qualche erba, e nella luce serotina che fa da sfondo al mirifico mistico roseto nell’opera lottesca in S.Domenico, e presso qualche vecchio lavatoio, tra gli echi delle risate de quarghe lavvanara, e nello sventolar delle bandiere, e nel buio che lascia ‘a cannela stutata prima de gì a lettu, nel silenzio che rimane de ‘na serata passata co’ l’amici in compagnia, nel correre de ‘n’oca che fuja via pe’ l’ara, e nelle metamorfosi arcane che la pietra asseconda nei duecenteschi ingressi ai luoghi santi o nelle lettere in essa incise sui portali dei palazzi di una nobiltà che non c’è più, e nell’aroma fragrante della lavanda che si spande ai primi venti freschi di settembre, e sui volti e nel cuore di chi, sorridente o infreddolito e rapito da nostalgia, ha ormai come possesso dell’anima la meraviglia che toglie spazio al cielo presso la chiesa dei Minori, dinanzi al Balcone, verso il mare – il degradare ceruleo del Conero lontano – o a occidente, uscendo da Porta de’ Tassi, già de’ mercanti di panni – l’imporsi sontuoso e austero delle verdissime propaggini d’Appenino: «ello verde tuttu attunnu» che fa parer «daero de sta lì ‘n’antru munnu».
Ma come la pioggia, in fine, non è che l’odore intenso e scuro che emana dal terreno su cui è caduta e il fuoco nient’altro che bragia e cenera lieve e tepore che si dissolve, così la vita, ogni vita e così questa vita dell’uomo sulla terra è sempre, nel suo termine ultimo e dunque nella sua forma più autentica e compiuta, memoria, nient’altro che memoria.
Alle Muse signore delle cose mondane è madre Mnemosyne; non a caso, a sua volta, figlia di Cielo e di Terra.
Perché la vita non si dà che nell’attimo. Non si manifesta se non nella contingenza. È contingenza. Hoc qui accidit.
Το θειον, il Divino, la Vita che anima e avvolge il cosmo, ciò che impregna l’essere delle cose, nel suo etimo più profondo, originario e antico è infatti ciò che risplende, o meglio ancora, il risplendere della luce del giorno, l’abbagliante baluginare dell’attimo tra le due speculari vastità di cielo e terra.
E l’attimo, nella sua vertiginosa altezza e densa e lucente complessità, non è vivibile, perchè è il Chaos delle due categorie del soggettivo e dell’oggettivo, l’Indistinto che precede i due atti del percepire e dell’esser percepito, dove questi sono assolutamente indissociabili, e quindi ciò che travalica, perché ne è la condizione, l’esistente, e così anche l’umano, ciò che è nella sua singolarità compiuta l’uomo.
È la vita, a ben considerare, che ci vive!
Ma l’uomo, ognuno di noi, e ogni ente – come un bambino che si china per prendere in pugno senza motivo una manciata di terra bagnata dalla prima pioggia d’autunno – raccoglie nella dimensione materna della memoria la traccia, diversa per ognuno, lasciata dalla Vita. E in questo gesto delicato, ingenuo e inconsapevole e insieme penoso perché sempre insoddisfacente – l’umidità si dissolve pel calore della mano e la terra arida scorre via in parte – sta la più autentica vita del mondo e così dell’uomo, o che è lo stesso, forse, ciò che l’uomo sente come tale.
L’uomo è il riappropriarsi singolarissimo, lento, faticoso e sempre insoddisfacente, nell’intimità del ricordo, del passaggio della Vita, di ciò che i filosofi arabi dell’ Età di mezzo dissero, con tutta la suggestività e la sublimità insite in quel linguaggio della concretezza che è proprio soltanto di chi è sodale da troppo tempo con la solitudine del pensiero: “Ciò che viene dal di fuori”, ma che al tempo stesso è più intimo a noi, di quanto noi lo siamo a noi stessi!
L’essere è, al fondo, avere; l’avere è, al fondo, essere.
L’albero è la terra da cui è sorto; il frutto è l’albero sul quale è maturato e la terra da cui l’albero ha tratto linfa.
Questi frutti ‘ccordi che qui ci vengono offerti hanno tutto il sapore, tutta la freschezza, il colore, la compattezza, l’antichità, la profondità e la varietà della terra da cui è sorto l’albero dai cui rami, venuto meno il fiore, sono cresciuti e maturati.
Di conseguenza la loro scorza, variegata e saporosa anch’essa, non poteva esser che la lingua propria di una tale terra: il dialetto. Ogni realtà avendo un proprio singolarissimo linguaggio che solo ne esprime nel modo se non più autentico, certo più adeguato e pregnante l’essenza.
Assaggiateli e assaporateli dunque queste frutti o se volete, riponeteli – per parafrasare l’Aristofane delle Vespe – come le mele cotogne in cassapanca, così i vostri panni odoreranno tutto l’anno della vita di una Cingoli che ormai quasi non c’è più, ovvero, di ciò che di questa è rimasto: custodito, con cura e con un accenno di nostalgia negli occhi, nel cuore d’un suo riconoscente figlio.
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Cingoli, Biblioteca comunale Ascariana
1 settembre 2010
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Gianfilippo Centanni, Cingolanità
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Definendo, in una delle sue più suggestive poesìe, “reo” il tempo, Ugo Foscolo è stato anche precursore d’una colpa dell’epoca attuale che dei valori ossida la spiritualità privilegiando vacue lucentezze quali l’esasperato apparire o aggiornando in chiave edonistica (“L’uomo tanto può per quanto ha”) l’aurea massima per cui “L’uomo tanto può per quanto sa”.
Uno dei valori che, se non resistessero per singoli meriti troppo spesso negletti o spesso addirittura mortificati, sarebbero irreversibilmente destinati alla corrosione, è la “cingolanità” già spiccata ed esaltata da benemeriti concittadini con disinteressata dedizione e reiterati impulsi favorevoli al bene comune, ora permanente sottotraccia pure per alternanza etnico-generazionale.
Personaggio e interprete di “cingolanità” è stato e rimane Enea Angelucci, “il cavaliere” per meritata onorificenza, Enea per tutti.
Tutt’altro che facile evolversi, col titolo di studio di quinta elementare, da una famiglia di modestissime condizioni ma di saldi e intemerati princìpi, base di partenza la prospettiva di lavorare come sarto: incerte, numerosa essendo la categoria, le prospettive d’un sufficiente tornaconto. Enea, giovanotto di belle speranze, già esperto cercatore di funghi e d’erbe campagnole, alacre e intraprendente, considerata la validità delle prospettive di risorse dal turismo ricettivo e ristorativo, con la moglie Maria Teresa Stoppoloni vocata alla culinaria legata alle tradizioni della gastronomia locale, ha iniziato l’operatività con l’albergo ristorante Martinangeli.
Confortante il successo, e stimolante: perché, sfidando il pessimismo di chi riteneva che la zona dei Cerquatti fosse troppo fuori mano per appagare l’investimento, Enea ha dedicato impegno e risorse alla realizzazione dell’hotel ristorante Miramonti. Il risultato è stato sotto gli occhi di tutti: Cingoli ha avuto un complesso turistico in più, Enea e famiglia tante e legittime soddisfazioni. Va rammentato che, con Gigi Cipolloni memorabile per “cingolanità”, Enea è stato tra i propulsori dell’Associazione albergatori e ristoratori, per anni operativa.
Fin qui la “cingolanità” non sarebbe proprio eminente. Ma lo diviene per la disponibilità che Enea, Maria Teresa e il figlio Maurizio hanno dimostrato “regalando” a Cingoli iniziative e avvenimenti da cui la città “Balcone delle Marche” e quindi la collettività hanno ricevuto innegabili e prestigiosi corrispettivi.
Intanto col trattamento che, riservato dal “Miramonti” non solo alla popolazione villeggiante e a chiunque ospitato, per tipicità culinarie (basti pensare ai rinomati “gnocchi ripieni”, un’esclusiva richiestissima) qualità e continuità ha consolidato i meriti enogastronomici riconosciuti e dilatati agli operatori cingolani; poi collaborando intensamente a manifestazioni con un premuroso contribuito organizzativo e un sostegno finanziario anche totale, ricevendo dal C.O.N.I. di Macerata un degno premio personale.
Due i riferimenti di spicco ed emblematici: “L’uomo in cucina” e il “Battilardo d’oro”.
Inverno 1982-83. Altri testimoni di “cingolanità”, gli indimenticati dottor Paolo Lampa e Aldo Maccioni, furono tra i propulsori d’un evento che, programmato da Comune, Azienda di soggiorno e Comunità montana, in due giorni, il 7 e l’8 gennaio 1983, portò a Cingoli attori, attrici, personaggi dello spettacolo di affermata notorietà, per “L’uomo in cucina”, un concorso gastronomico in cui, tema “Piatti di montagna”, cuochi gli uomini e in giurìa le donne, era in palio il titolo di campione assoluto per quell’anno.
Concorrenti, in ordine alfabetico: Diego Abatantuono, Pino Caruso, Christian De Sica, Andy Luotto, Maurizio Merli, Luc Merenda, Edmund Purdom, Luciano Salce, Ugo Tognazzi; presidente il giornalista Vincenzo Buonassisi, in giurìa Edvige Fenech, Stefania Sandrelli, Jaia Fiastri, Clara Gabrielli, Silvana Giacobini, Maria Teresa Stoppoloni.
Nella mattinata dell’8 gennaio, sui fornelli delle Cucine Lube opportunamente dislocate nel salone del “Miramonti”, gli attori hanno preparato i loro piatti. E in serata, durante la cena di gala ospitata nello stesso salone, il verdetto: vincitore Diego Abatantuono con le “Tagliatelle feroci all’Attila”, ingredienti del condimento olive nere, pelati, burro,olio, cipolla, origano, capperi, sale e peperoncino.
Cingoli finì clamorosamente in positivo sulla stampa e le tv nazionali, Enea sarebbe stato dispostissimo a ospitare ulteriori edizioni annuali, senonchè una dispersione di volontà (sembrò che il concorso non sarebbe proseguito, se lo accaparrò Viareggio) mantenne episodico, ancorchè gratificante, “L’uomo in cucina”. Che, a ben guardare, ha funzionato da prova generale per il “Battilardo d’oro”.
Mi scuso per l’intrusione, comunque obbligata, con riferimenti personali. Nel 1984 venne istituito il Gruppo marchigiano giornalisti sportivi (Gru.ma.gi.s. poi, l’acrostico essendo quasi uno scioglilingua, USSI Marche) aderente all’USSI, Unione Stampa Sportiva Nazionale. Eletto presidente il dinamico giornalista RaiTv Massimo Carboni, uno dei vicepresidenti sono stato io, restandovi con il valente collega Andrea Carloni pregresso e attuale presidente. Enea, incontrandomi, si congratulò per la mia nomina e buttò là: “Io ho sempre desiderato dare un premio speciale a chi con lo sport ha onorato noi marchigiani e la regione, però non saprei chi contattare, mentre voi giornalisti sportivi state tanto a e spesso con atleti, allenatori, dirigenti, insomma con un mondo a me sconosciuto. Perché non mi aiutate? Io metto il premio e il ‘Miramonti’ per attribuirlo, assumendomi ogni spesa; voi pensate ai candidati, me li proponete, decidiamo quando invitarli”. E a domanda legittima (“Cavaliè, il premio come lo chiamiamo?”) pronta la risposta: “L’ho già in mente: ‘Battilardo d’oro’: il battilardo è uno degli attrezzi più antichi e usati dalle nostre donne in cucina, come pure al ‘Miramonti’; io ordino a un orafo riproduzioni in oro tipo monile del battilardo, con incisi nome e cognome d’ogni premiato, facciamo un bel pranzo con loro, gli diamo il ‘Battilardo d’oro’, regalo a Cingoli una bella manifestazione portandovi gente conosciuta a livello nazionale o addirittura internazionale, che magari non sa dov’è Cingoli ma, venendoci per l’occasione, può apprezzarla”.
Il Consiglio direttivo dell’USSI Marche accettò in pieno la proposta, realizzata in sinergìa per la prima volta nella tarda primavera del 1984 conferendo nel “Miramonti” il “Battilardo d’oro” all’allenatore Carlo Mazzone per il calcio, Walter Magnifico (basket), Franco Uncini (motovelocità), Luigi Minchillo (pugilato), Stefano Cerioni (scherma) attuale commissario tecnico del settore, Marco Falcioni giovane pilota di motocross. In 16 edizioni, ciascuna a metà giugno d’ogni anno, sede il “Miramonti” per l’ufficialità e la convivialità, il “Battilardo d’oro” è stato assegnato a chi, denominatore comune lo sport, da marchigiano ha dato lustro alla regione e a chi, non marchigiano, permanendo nelle Marche le ha impreziosite con risulati e prestazioni egregie.
L’albo del “Battilardo d’oro”, pubblicato a parte, fino al 2005 e con pause per gravi motivi di forza maggiore, comprende “vip” di ogni disciplina, tra cui i cingolani Riccardo Trillini tecnico e Davide Campana giocatore per le loro affermazioni nella pallamano, e Pacifico Mazzieri geniale preparatore-elaboratore di macchine da competizione e ideatore-costruttore dell’auto elettrica “Micron”.
Ribalta socio-sportiva di gratificante preminenza, il “Miramonti”, ma pure amicale ritrovo per comitive, ricorrenze, intrattenimenti. E scherzi: come l’atto conclusivo di quella memorabile beffa “del prosciutto” , attori lo scomparso dottor Alessandro Ippoliti e la congrega di Villa Strada, protagonisti due prosciutti: uno in gesso-polistirolo-osso e l’altro vero e sapido, degustato dopo la rivelazione del tiro mancino.
Ristrutturato dirimpetto a Porta Piana, il Bar dei Tigli su ispirazione del dottor Maurizio Angelucci figlio di Enea, è stato dedicato anche alla pallamano: per dire quanto e come la famiglia Angelucci tenga a Cingoli e alle espressioni, una delle quali è appunto l’handball, che la connòtano.
La poliedricità di Enea (nel 1979 aveva messo a disposizione il suo locale in Borgo Paolo Danti per la replicata mostra micologica) appassionato catalogatore con Guido Calvelli delle “figurette”, le edicole sacre disseminate nel territorio cingolano e fotografate con l’indicazione della località, risalta nella sua vena letteraria: di poeta con predilezione per il vernacolo, cingolano ovviamente. Sue ispirate composizioni figurano puntualmente nell’annuale antologia “Voci nostre” pubblicata dall’omonimo e benemerito sodalizio marchigiano, l’unico che di poeti e artisti della regione offre il meglio della produzione. E la dirigenza dell’associazione che ha sede in Ancona, ha deciso di assegnare a Enea un gratificante riconoscimento.
“Cingolanità”, dunque: per genuino fervore, con testimonianze significative, sobrietà caratteriale, sentimenti fino al secolo scorso peculiari della nostra gente (essere di Cingoli era quasi un titolo d’onore esibito con vivido orgoglio) e adesso tendenti all’evaporazione quasi fossero penalizzanti.
Non lo sono: anzi, rifulgono e rimarranno esemplari, finchè avremo chi, come il caro Enea, li vive ribadendone e tramandandone l’essenza.
Gianfilippo Centanni
Cingoli, 10 agosto 2010
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