Del brillar d’argento i sali. Intorno alla “scrittura della luce”. Considerazioni filosofiche sulla fotografia

 

 

        Tra le forme dell’impossibilità che segnano il vivere umano, un posto privilegiato – per la frequenza della sua incidenza sulla coscienza individuale – occupa il contrasto allo scorrere del tempo e all’oblio di quella complessa e inestricabile convergenza di sensazioni che incessantemente ogni individuo subisce e a modo suo rielabora e di cui soltanto una porzione indefinibile e non quantificabile ripone nelle stanze della memoria. 

      Nell’uomo, per sua naturale costituzione, contraddittoriamente si agitano, insinuandosi una nell’altro, il ricordare e il dimenticare, la memoria e l’oblivione di essa.

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      Non si potrebbe parlare di vita umana senza l’insieme, seppur vago e dai confini incerti, dei ricordi. Sarebbe come lo svegliarsi la prima volta. Gli occhi pieni di luce. Il vuoto delle cose. Il biancore opprimente di un non-Mondo.

      Né il vivere umano sarebbe possibile senza le nebbie interiori del dimenticare. Come Ireneo Funes, ogni individuo sussisterebbe in ciascun momento nella insopportabile situazione della percezione viva e minuziosa di ogni sensazione vissuta. Come lui – almeno stando a quanto ne scrive Borges – chiunque discernerebbe continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Noterebbe i progressi della morte, dell’umidità. Un mondo sovraccarico di dettagli, quasi immediati. Gli uomini lucidi spettatori di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso[1].

      E’ una alternanza non proporzionale però, non pacifica.

      All’incessante fluire delle acque del Lete le porte che serrano i granai della memoria non costituiscono un argine duraturo. Non si riflette mai abbastanza su quanto poco rimanga in ognuno di noi di tutta la complessità e l’intensità di una esperienza vissuta. Profumi, rumori, sapori, il vento freddo che ci scompiglia i capelli in una giornata invernale in riva al mare… tutto ciò che concerne la sfera dei cinque sensi ne risulta illanguidito, diluito, se non completamente perduto. Una immagine sfuocata e la sua collocazione nello spazio e nel tempo è ciò che nel migliore dei casi ne rimane.

      Non si può rivivere il trascorso.

      Non è possibile riappropriarsi del proprio passato.

      Oltre interminate distese, terrificanti desolazioni e imponenti montagne, nel più fitto di boschi impenetrabili, in un giardino protetto da mura invalicabili e guardato da draghi o leoni, sgorgano infatti quiete le acque del Fonte dell’oblio e della memoria. Colui che si incammina sui suoi sentieri non può giungere che allo smarrimento o, che è lo stesso, alla follia.

      E’ a quella che potremmo indicare come una innata tensione all’equilibrio, alla pacificazione, alla proporzione, dunque, che è forse associabile l’inquieta tendenza dell’uomo al ricordare, la sua nostalgica ricerca del recupero, nella dimensione immateriale della memoria, della complessa densa corporeità del vissuto. Spinto da tale insopprimibile ansietà, nel suo lento e certo non lineare progredire, egli ha elaborato e tentato di mettere a punto, tra le innumerevoli altre, tecniche, più o meno sofisticate, per varcare le porte che aprono a quel segreto mirifico Giardino.

      Tra questi frutti dell’ingegno umano un posto privilegiato occupa di certo la Fotografia.

      Con essa l’umanità è infatti giunta ad attuare in un qualche modo – anche se forse illusorio – la possibilità di toccare, anche solo se con un dito, l’inattingibile vertiginosa altezza della fissazione dell’attimo, del particolare assoluto, della contingenza suprema. Quindi della Vita. Questa non manifestandosi se non nella contingenza, questa non essendo, in fondo, se non essa stessa la contingenza. Hoc qui accidit.

      La descrizione che la Foto-grafia ci fornisce del singolo momentaneo accadere non ne esaurisce però – ecco l’illusorietà – l’incredibile complessità. Non ne esaurisce anzi – come vorrebbe Roland Barthes – forse neanche un minimo contenuto, essendo essa nient’altro che «l’involucro trasparente e leggero» della contingenza2. La fotografia risulta interamente gravata dall’accidentalità dell’attimo, senza però riuscire a rispecchiarla. Se infatti la Vita non può che darsi nell’istante, questo è allora il Chaos delle due categorie del soggettivo e l’oggettivo, l’Indistinto che precede i due atti del percepire e dell’esser percepito, dove questi sono assolutamente indissociabili. Ma se così, come di fatto è, la fotografia viene a presentarsi come una tragica falsificazione dell’istante che vorrebbe invero fissare, far proprio; la descrizione che essa fornisce, che essa è, che si presenta come il luogo della dissociazione della realtà nei due “aspetti” nei quali l’apparato cognitivo umano la struttura – o meglio sarebbe da dire la de-costruisce –, «l’avvento del vissuto come altro»3, la Morte.

      Nel suo oggettivare il vissuto la fotografia, lungi dal salvarne il contenuto sottraendolo all’ingordigia perenne del Tempo, non ne preserverebbe dunque che l’esterna, anche se lucente, aurea. La sua essenziale tensione a fissare per custodire l’inesauribile e complessa pienezza del momento verrebbe nel suo stesso darsi tradita. Un palcoscenico di figure in penombra.

      Eppure, al di là del suo statuto ontologico e del suo destino, la fotografia dà attuazione all’utopia che ne è all’origine. Ma è una attualità che si realizza soltanto nella sfera singolarissima del personale, dell’intimamente privato. In quest’ambito, e soltanto in esso, la fotografia agisce come una sorta di imago memorativa. Quando si osserva una fotografia del proprio passato le mute sagome dell’immobile teatro che essa dovrebbe essere d’improvviso iniziano a parlare, risvegliando in noi la qualità delle sensazioni vissute nell’attimo da essa fissato. Io bambino in braccio a mia madre… la calda morbidezza del suo maglione, il suono della sua voce, il profumo dei suoi capelli…

      Contrariamente però alla vera e propria immagine di memoria – quale cioè risulta dalla tradizione e dalla letteratura mnemotecnica4 – l’immagine rappresentata dalla fotografia non dà adito al fluire dei ricordi per la stravaganza, la non ordinarietà della sua forma e dei suoi tratti, bensì per la sua inattualità. «Nella fotografia – ha osservato infatti Barthes – l’immobilizzazione del Tempo non si manifesta che in un modo eccessivo, mostruoso: il Tempo è ostruito!»5. Il fatto che la fotografia sia “moderna”, confusa con la nostra quotidianità più attuale, non impedisce che in essa vi sia come un punto enigmatico di inattualità, una strana stasi, l’essenza stessa di una fermata. La fotografia ci attesta in modo perentorio ciò che è stato. Ciò che siamo stati. La realtà, ovvero l’effettivo essersi verificato, del nostro passato. In tal modo essa fa sì che il Nulla irrompa nella nostra coscienza. L’Io, sicuro nella stabilità del proprio esser-ci, viene scosso dall’irrompere di un suo non essere più, e quindi immediatamente anche dallo spettro del suo star per non essere, del suo prossimo inevitabile non essere più. E’ proprio perché nella fotografia c’è sempre questo segno imperioso della morte futura, che essa, fosse anche apparentemente la più aderente al mondo eccitato dei vivi, viene a interpellare ciascuno di noi, uno per uno, al di fuori di qualsiasi generalità. Da questo interpellarci ognuno di noi prende coscienza, o meglio rinnova la coscienza del proprio destino di mortale.

      L’inattualità della fotografia, avviando una tale riflessione dà adito nello stesso tempo – per una sorta di interiore reazione – al ricordare come risposta alla tragica consapevolezza che da questa stessa riflessione risulta. Il passato, intorpidito nella fotografia, si rende di nuovo disponibile a essere in qualche modo vissuto nella dimensione della memoria. Il ricordare – e quindi il rivivere – le emozioni e le sensazioni di un nostro vissuto trascorso che la fotografia permette, appaiono e si impongono alla coscienza come rifugio dalla fatale deriva del nostro essere, della cui rinnovata consapevolezza essa stessa è l’artefice. Incamminarsi lungo il sentiero incerto dei ricordi è avviarsi verso il porto sicuro in cui i flutti del Nulla non giungono.

      Eppure, immergendoci nelle acque della memoria entriamo nella dimensione fluida e al tempo stesso densa, nebbiosa e piena di luce, dove, abbracciati, giacciono in silenzioso torpore la realtà e il sogno. Rivivendo il nostro passato, ritornando ciò che siamo stati, la Vita viene infatti a manifestarcisi nella sua più intima essenza, quale l’incerto confine tra l’Essere e il Nulla. E’ l’epifania del Divino. Manifestazione dinanzi alla quale l’anima trasale, atterrita. E’ quella tragica verità del Mondo della quale si ha una delle più sublimi espressioni nella Tempesta shakespeariana, quando Prospero, prendendo la parola, afferma: «Questi nostri attori erano tutti spiriti, ed ora si sono dissolti in aria, in impalpabile aria. E, al modo istesso che la fabbrica senza fondamento di questa visione, così anche le torri incappucciate di nuvole, i palazzi fastosi, e i templi augusti, ed esso stesso questo grande globo terrestre, sì, tutto quel che v’è in esso, si dissolverà e, come spettacolo senza corpo che svanisca, non si lascerà dietro neanche uno straccio di nube. Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra piccola vita è tutta cinta di sonno6   

 

 

                                                           LUCA PERNICI          

                                                           VillaStrada – Cingoli,  agosto 2008

 

 


[1] J.L.Borges, Finzioni, Adelphi, 2003, Funes, l’uomo della memoria, pp. 95-103

2 Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, 1980, p. 7

3 Idem, p. 14

4 Cfr. F.A.Yates, L’Arte della memoria, Einaudi, Torino, 1972, nello specifico i capitoli I-V.

5 R. Barthes, La camera chiara …, cit., p. 91

6 W. Shakespeare, La tempesta, IV, 1 – Teatro completo di William Shakespeare, a cura di G.Melchiorri, Milano, Arnaldo Mondatori Editore, I Meridiani, 2007, volume VI, pp. 926-929

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